Come diffondere il seme del cambiamento nel mondo della moda? La storia di Matteo Ward, tra business e  Fashion Revolution

Matteo Ward ha le idee chiare. Obiettivi ben fissati e un bersaglio unico da centrare, per il suo business ma soprattutto per il futuro del mondo della moda.
Stiamo parlando di uno dei settori trainanti della manifattura veneta, dai big del settore ai piccoli e medi atelier e fashion designer che popolano la Terra delle Meraviglie.
Un mondo, quello del fashion, divenuto mordi e fuggi, fatto di scatti su Instagram, acquisti low cost capaci di permettere continui cambiamenti di outfit. E se la moda oggi è diventata veloce, quasi inafferrabile nei trend, caleidoscopica e piena di talenti, aziende, innovazione e idee, può arrivare ad attuare un cambiamento radicale, evolvendosi ad un livello superiore tra sostenibilità ed etica?

Una domanda da un milione di dollari, potrebbe sembrare.
Non per Matteo che con il suo progetto WRAD e l’impegno nella Fashion Revolution, diffonde il seme del cambiamento in quello che è, a conti fatti, il secondo settore più inquinante al mondo.
Italoamericano, diplomato al liceo classico e laureato alla Bocconi, dopo essere diventato il giovanissimo co-amministratore del Diversity And Inclusion Council di Abercrombie and Fitch, benché apprezzasse di quell’ambiente di lavoro «sano, produttivo e felice, perché investire in positività per catalizzare il cambiamento è la chiave di tutto, a partire dai piccoli gesti quotidiani come un semplice sorriso», Matteo Ward inizia a prendere coscienza di quanto il costo della moda incida sulle persone e sull’ambiente.
«Il settore del fashion è il secondo più inquinante dopo quello petrolifero. Un prezzo alto da accettare vista la mia volontà di contribuire a catalizzare qualcosa di positivo nel mondo. Parlo dell’industria della moda nella sua totalità, così diventata in modo silenzioso, perché di fatto se ne parla ancora poco. C’è un grave problema di asimmetria informativa tra il mondo della moda e i suoi fruitori. Tutto questo mi ha portato a pormi delle domande, le cui risposte sono diventate, gradualmente, il seme di un business plan di un progetto troppo forte e sentito per non essere sviluppato»

Matteo Ward

I dati sono chiari e allarmanti: il 20% dell’inquinamento delle acque industriali arriva dal mondo della moda, la maggior parte dei prodotti a basso costo (e non solo) contiene sostanze chimiche e tinture tossiche. Parliamo di abiti e accessori fashion che in breve tempo diventano rifiuti, considerati “usa e getta”, secondo le statistiche prodotti al 90% con l’utilizzo di combustibili fossili come il petrolio, senza considerare poi che, nel caso del poliestere contenuto nella maggior parte dei capi d’abbigliamento, per produrne 1 tonnellata ne vengono emesse 5 di anidride carbonica, uno dei grandi responsabili dell’inquinamento atmosferico.

Matteo Ward

Matteo Ward si licenzia nel pieno della crisi economica per dare corpo al progetto WRAD, nato nel 2014 con l’obiettivo di lavorare per trovare una soluzione invertendo la rotta di un’industria sempre più inquinante.
Come nelle favole, le persone spesso si incontrano e sorprendono a vicenda, e nella primavera del 2015 tre giovani professionisti dell’industria della moda hanno l’illuminazione: al tempo Matteo Ward era in Germania, Silvia Giovanardi, designer ed artista, esprimeva il suo talento creativo per una delle case di moda più rinomate d’Italia (Etro – ndr) e Victor Santiago, da poco arrivato in Europa dal Brasile, emergeva come fotografo di moda, firmando copertine ed editoriali per L’Officiel Hommes, L’Officiel, TOM, Esquire e Harper’s Bazaar.
«Insieme abbiamo dato vita a un movimento che ha preso forma tra le strade d’Europa, dalla Spagna al Nord Europa, attraverso l’incontro con realtà e persone pur diverse ma che, come noi, volevano catalizzare un cambiamento positivo. Un viaggio spontaneo raccontato sui social media, capace di documentare in presa diretta e con inusuale lucidità l’impatto del fashion sul pianeta e sulla società»

Perché raramente si parla dello sfruttamento di risorse e persone che corrode il pianeta e costringe i lavoratori a condizioni disumane: «Non si parlava infatti di magliette o pantaloni sostenibili ma di valori e macro-dinamiche di un sistema. Il nostro approccio è stato quindi diverso, sin dall’inizio. Grazie anche all’esperienza e al supporto nella ricerca e nello sviluppo di Susanna Martucci che con Alisea fa della sostenibilità, del riciclo e riutilizzo la filosofia del proprio lavoro, nel nostro viaggio abbiamo incontrato tante persone che hanno abbracciato il nostro stesso obiettivo. Questa rete è stata fondamentale perché ci ha consentito, in solo un anno e mezzo di lavoro, di arrivare a sviluppare non dei prodotti destinati ad un consumo veloce ed irresponsabile ma dei beni da amare e vivere, nati in virtù di un obiettivo condiviso. Beni che esistono in funzione di uno scopo, e non viceversa»
Così nasce WRAD, l’inizio di un percorso che per essere completato deve essere condiviso, perché nulla è più forte della volontà condivisa delle persone. Non un brand ma un “behavior”, un comportamento, un’attitudine che identifica chiunque abbia una propensione ottimista e la certezza che il cambiamento sia possibile, a partire dagli individui e dalle azioni che essi consapevolmente compiono.
Il lancio a fine 2016, e ora una capsule collection ogni due settimane, con prodotti dipinti a mano di grande valore. E poi il Graphi-Tee Design Contest, valido fino al prossimo 15 febbraio: «Dopo il lancio delle magliette, volevamo diffondere il cambiamento coinvolgendo direttamente le persone, attraverso un contest volto a sviluppare la loro creatività per la realizzazione di un progetto nuovo, da scrivere come su un foglio di carta. Il tutto per dare valore al tessuto e al suo ruolo all’interno del processo di produzione. Il vincitore vedrà la sua creazione realizzata e potrà seguire tutte le fasi della produzione per capire, concretamente, chi l’avrà “fatta” e come»
E ora il denim: «È in assoluto il tessuto più inquinante al mondo. Al momento stiamo lavorando in sinergia con i nostri players alla definizione della possibile produzione di un jeans realmente sostenibile, grazie ancora una volta alla grafite»

Un manifesto per la rivoluzione nella moda, insomma: «Se ci pensiamo, i beni di consumo di questo settore, quello che in gergo si chiama “fast fashion” sono di facile acquisto. Poche manciate di euro o dollari per capi che durano una stagione. E chi di noi può dire di sapere “who made my clothes?”, chi ha fatto i nostri abiti? Ci siamo abituati ad avere tante cose nell’armadio, spesso di dubbia qualità, perché le tendenze scorrono alla velocità della luce e soprattutto perché il budget a disposizione, in primis dei più giovani, è in continua diminuzione. Così facendo, ciascuno di noi alimenta un circolo vizioso fatto di sfruttamento del lavoro e inquinamento»

E poi c’è la Fashion Revolution, «nata a Londra a seguito del crollo del Rana Plaza Bulding avvenuto il 24 aprile 2013, dove persero la vita 1.134 persone e oltre 2.500 rimasero ferite. Il complesso con sede a Dacca, in Bangladesh, era un polo industriale caduto per via dell’abbassamento delle spese di mantenimento per la volontà di ridurre i costi di produzione. Questo aprì finalmente gli occhi al mondo su un’industria non più da considerarsi sostenibile. Oggi è perciò necessario aumentare la sensibilizzazione nei consumatori, facendo capire che la maggior parte dei prodotti del mondo della moda sono tossici, inquinanti e realizzati attraverso lo sfruttamento delle risorse umane»

Matteo Ward

La Fashion Revolution sbarca in alcune aree del Veneto proprio grazie a Matteo Ward, Silvia, Victor e all’attivista sociale Federica Maltauro: «A Dicembre 2015 abbiamo organizzato una corsa tra Milano, Vicenza e Rimini con lo scopo di sensibilizzare le persone offrendo gli strumenti necessari per fare delle scelte più responsabili e raccogliere fondi per la Fashion Revolution»
È la FashRevRun, corsa di 5km dove ad ogni km erano posizionate stazioni con alcuni volontari impegnati a raccontare ai partecipanti la relazione tra moda e acqua, sostanze chimiche, combustibili fossili, rifiuti e cambiamento climatico.
«Nel corso del 2015 abbiamo attivato altri eventi con e per Fashion Revolution, anche nelle scuole, sempre con lo scopo di generare consapevolezza per portare il mercato a richiedere sempre più trasparenza alle case di moda sullo stato di salute della loro value chain e sviluppare gradualmente condizioni migliori per i lavoratori impiegati nel tessile e per l’ambiente»

Matteo Ward oggi è stato scelto come membro ufficiale dell’Education Team della Fashion Revolution, grazie ad un format educativo portato tra scuole ed università volto a sensibilizzare i più giovani, tanto che l’organizzazione ha deciso di riproporlo a tutti suoi Country Coordinators sparsi in 92 paesi nel mondo.
Ciò che interessa a Matteo Ward, a livello imprenditoriale, globale e personale, è comunicare che il cambiamento nel mondo della moda è possibile: «I prodotti devono essere pensati per essere sostenibili dalla scelta delle fibre tessili e dei materiali con requisiti ecologici e certificazioni che ne attestino la provenienza pulita e biologica (GOTS, per citare il più importante), a quella delle tecniche di tintura, ispirate dalle antiche usanze romane e riproposte oggi in modo innovativo grazie alla ricerca continua per la riqualificazione circolare dei materiali. C’è bisogno di particolare attenzione anche alla scelta dei luoghi di produzione, selezionati perché depositari della cultura, della tradizione e del know-how ancorato al territorio Europeo dove sono nate le manifatture più pregiate e le tecniche segrete dei mastri della tradizione»

Matteo Ward

Nell’era del consumismo di massa è dunque possibile fare abbigliamento in maniera sostenibile e nel rispetto dei lavoratori? «Sogno un’industria che tenga in massima considerazione l’ambiente e le persone. Una “visione ispirata” che va oltre il sistema moda, proiettando valori, contenuti e tendenze del “modo di essere WRAD” a tutti i rami della società e della vita. Bisogna iniziare ad essere non più solamente puri consumatori, bensì veri e propri investitori in progetti che si fondano su valori condivisi e che – forti della loro consapevolezza – fanno del “potere di scelta” lo strumento privilegiato di un movimento portatore di cambiamento e d’innovazione culturale. La moda deve valorizzare le risorse naturali ed umane, e bisogna avere il coraggio di attivarsi per diventare investitori in un futuro migliore.
Because if we don’t act, then who acts?»

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Ilaria Rebecchi
Diploma di scuola media superiore, giornalista free lance appassionata di musica e piante, collabora saltuariamente con redazioni locali.